Le città e le architetture che l'occhio fotografico di Sergio Camiz vede, sono colte nella loro flagranza, sono scena fenomenica e come tali, lungi dal costituirsi protagoniste primarie, come ogni scena che si rispetti, si danno piuttosto quale sfondo di azioni, esibiscono la loro qualità di luoghi dell'esistenza più che di spazi assoluti. In questo senso sono agli antipodi e costituiscono, per noi architetti, un'interessante alternativa alla visione dei grandi fotografi di architettura (partendo da Julius Shulman ed Ezra Stoller per arrivare ai nostri Mimmo Jodice e Gabriele Basilico). Questi hanno guardato all'architettura come protagonista primaria, come esperienza artistica in sé conclusa, hanno - anzi - potenziato con la propria arte fotografica le qualità che l'architettura intendeva raggiungere eliminando le accidentalità e la quotidianità che sempre minacciano di renderla diversa e comunque mutevole. Nelle immagini dei fotografi di architettura quest'ultima è immota, eterna, colta nel pieno della propria potenza di gioco sapiente sotto la luce, priva di difetti, messa in posa. Non solo la loro opera esalta, isolandoli i valori del soggetto ripreso, ma spesso giunge ad assegnargli qualità nuove non comprese nel progetto originario aggiungendo, con la ripresa fotografica, all'arte del costruire l'arte del guardare e quella del creare sul già creato. Camiz, al contrario non mitizza l'arte del costruire, non tributa omaggi a priori, non aspetta la giusta luce, né che il passante si scansi. A lui non interessa l'architettura in quanto tale, e comunque non più del passante. Egli attraversa i luoghi del suo personale viaggio e ne registra gli aspetti: non quelli che le cose pretendono di possedere, ma piuttosto quelli che si manifestano in quell'hic et nunc dell'incontro con il fotografo: incontro non predisposto né commissionato. Il processo critico dello sguardo è in questo caso di tipo sottrattivo: toglie aura, accorcia la distanza psicologica tra osservatore e soggetto, potremmo giungere a dire che manca di rispetto. Parlo di quella mancanza di rispetto, di quella percezione disattenta tipica di chi guarda l'architettura vivendo la propria quotidianità e inseguendo i propri rovelli, rispetto a quella di chi guarda l'opera d'arte dopo essersi recato deliberatamente all'incontro con questa. Ecco perché considero di grande interesse il suo vedere l'architettura: gli riconosco, oltre l'abilità e la sapienza fotografica (che Sergio Camiz ha costruito come autore originale, ma comunque a partire da un'eredità familiare di tutto rispetto) una sorta di plusvalore etico e pedagogico da raccomandare agli architetti i quali, delegati a progettare la scena della vita quotidiana, non devono mai dimenticare che il pubblico dell'architettura guarderà le loro opere più con lo sguardo di Camiz che con quello di Stoller.